Ubertone, al secolo Marcello Ubertone, nato a Rovigo nel 1982, ha iniziato a scrivere canzoni nel lontano 1999, in Kentucky, dove stava svolgendo un anno di studio all’estero. Il percorso che lo ha condotto solo adesso a pubblicare il suo primo disco è stato lungo e avventuroso. Di mezzo c’è stato un incontro con Mogol che si è innamorato di un suo pezzo e lo ha portato al CET, la sua scuola in Umbria, c’è stata l’esperienza come autore per la Gialappa’s Band, ci sono state le aperture dei concerti di Brunori SAS e Pinguini Tattici Nucleari. E poi ancora esibizioni sui generis come gli house concert nei salotti e “Il concerto più piccolo del mondo” che ha tenuto in occasione del festival letterario Rovigoracconta: in una piazza vuota, chiusa appositamente per lui, ha suonato una canzone per una o due persone alla volta. Dopo la pubbicazione di una serie di singoli nel 2022, Ubertone finalmente pubblica la sua prima raccolta di canzoni: Meconio. Abbiamo raggiunto Ubertone per un’esclusiva intervista.
In quale emozione ti rispecchi quando canti?
Di solito quando canto una canzone rivivo ciò che sentivo nel momento in cui l’ho scritta e nel mio primo disco, Meconio, esprimo una gamma di emozioni molto diverse. Penso però che ci sia un denominatore comune, in ciò che provo, a prescindere dal contenuto del testo che sto esponendo: il senso di intimità che spero di creare con chi mi ascolta, quella sensazione che provi quando stai raccontando a un amico un segreto o semplicemente una cosa che ti sta cuore. E non provo questa sensazione solo quando canto le mie canzoni davanti ad un pubblico. Succede anche quando le registro. Mi immagino sempre di dire a qualcuno ciò che sto cantando.
Qual è il tuo primo ricordo vertente il mondo della musica?
Io che salto sul divano ascoltando La mia moto di Jovanotti a tutto volume. Avevo sette anni.
In quanto tempo hai realizzato il tuo nuovo album?
Si tratta di una prima raccolta tra i moltissimi pezzi che ho scritto negli ultimi quindici anni, quindi la scrittura è un discorso a sé. Per la produzione invece direi circa due anni. Ho alternato del lavoro di preproduzione che ho fatto da solo a casa con quello di arrangiamento vero e proprio fatto in studio col producer Graziano Beggio. Poi c’è stata la ripresa delle batterie, il mix e infine il master che è stato realizzato in Argentina da Pablo Rabinovich. Due anni sono un periodo lungo, me ne rendo conto, ma cucire un vestito sonoro a delle canzoni che fino a quel momento erano sempre state suonate solo chitarra e voce era un’operazione delicata perchè dava una direzione all’inizio del percorso discografico. Quindi sono contento di aver fatto molti esperimenti prima di arrivare alle versioni definitive dei pezzi.
Qual è il filo conduttore dell’album Meconio?
Meconio è un album abbastanza vario: in poco più di mezz’ora mi addentro in diversi territori musicali. Il collante credo che sia la scrittura. Ci sono pezzi seri e pezzi cazzoni ma a parlare sono sempre io o tutt’al più un personaggio assimilabile a me. Ho scritto molti brani che raccontano storie di personaggi inventati e completamente diversi da me, ma ho deciso di raggrupparli in progetti che farò uscire in futuro.
A chi si rivolge Meconio?
Quando scrivo mi spoglio totalmente di ogni paura del giudizio, sono libero e quindi mi trovo nella condizione paradossale di parlare a tutti e a nessuno. Nella pratica poi saranno gli altri a decidere (o meglio a capire) se quello che dico fa per loro o no. L’unica eccezione forse è Efelidi, in cui un destinatario in carne ed ossa c’era e quindi la canzone aveva una funzione pratica, come un piatto di pastasciutta o una carezza.
Qual è il motto che sposi più assiduamente?
Ultimamente quello che ho scritto nella canzone Passi che ho fatto uscire solo su YouTube lo scorso febbraio, in occasione del mio compleanno: “io non voglio fare passi da gigante, voglio fare passi da uomo”.
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