Abbiamo avuto l’immenso privilegio di intervistare la dottoressa Sonia Cortopassi, una figura di spicco nel panorama culturale e scientifico contemporaneo. Fondatrice e direttrice del Festival Culturale Mèlosmente – La rivoluzione del corpo, la dottoressa Sonia Cortopassi si distingue come psichiatra e psicoterapeuta di profonda sensibilità, promotrice di una visione illuminata che fonde scienza e umanità. Grazie alla sua guida, il festival si configura non solo come un evento culturale, ma come una vera e propria piattaforma di crescita personale e di riflessione sociale, volta a celebrare la complessità e la bellezza del corpo umano, svincolato da stereotipi e giudizi. In questa intervista, scopriamo con lei le sfumature del tema della corporeità, intesa come punto di incontro tra anima e materia, una rivoluzione intima e collettiva che ci invita a ripensare il nostro essere nel mondo.
Dott.ssa Cortopassi, il Festival Mèlosmente affronta il tema della corporeità in un’ottica tanto complessa quanto affascinante. Quali crede siano le sfide più significative che la società contemporanea deve affrontare riguardo alla percezione e all’accettazione del corpo?
I temi in questione sono tanti. Nella modernità il corpo è stato sempre più reso oggetto e mercificato: un corpo-macchina, messo al lavoro, svalutato in quanto soggetto, in quanto corpo vissuto, dotato di una storia, di un ambiente, di un senso. La specificità della società contemporanea è che il corpo viene caricato di ulteriori ingiunzioni. Il corpo ipermoderno deve essere performativo, all’altezza di standard che deve rispettare, pena il fallimento e la vergogna. Deve aderire ai canoni ideali fissati dall’immaginario sociale, deve essere perfetto, non deve invecchiare, deve rifuggire il dolore (e dunque la morte, la sua propria finitudine). E se non riesce ad essere adeguato a quei canoni, non riesce ad accettarsi – e questo potrebbe peraltro essere un motivo del fatto che il concorso fotografico proposto dal festival ad ogni edizione, essendo sul tema “io non mi filtro”, abbia riscosso meno adesioni che in passato, perché risulta forse difficile per molte persone farsi un selfie naturale…Tutto questo genera inevitabilmente una grande quantità di sofferenza, perché sempre più spesso i corpi resistono a queste ingiunzioni, come dimostra il moltiplicarsi di varie forme di sofferenza psichica che aumentano specialmente nelle giovani generazioni.
Lei ha menzionato la necessità di una ‘rivoluzione di corpi finalmente liberati da stereotipi e giudizi’. In che modo la consapevolezza corporea può contribuire a questa trasformazione culturale e sociale?
Quando noi non siamo abbastanza consapevoli di noi stessi, non abbiamo le parole per comprenderci, non diciamo le cose che dovremmo dire, neghiamo i conflitti che dovremmo affrontare, allora è il corpo che parla, e lo fa con i suoi sintomi che poi avvertiamo come sofferenza. Affinché il corpo non sia ridotto a mero scenario di sintomi, dove va in scena tutto quello che neghiamo e non sentiamo, occorre sottrarsi all’accelerazione del tempo, che viviamo in ogni ambito della vita, e non solo nella rete. Bisogna mettere il corpo al centro, il corpo nelle sue relazioni col mondo e con gli altri: bisogna sentirlo ed ascoltarlo, cosa che si fa troppo poco spesso. Per rallentare, vanno bene certamente una serie di pratiche (quelle proposte dalla bioenergetica, la meditazione…), ma prima di tutto bisogna prendersi il tempo per se stessi, e prendersi il tempo significa chiedersi il senso, porre in questione il senso del nostro essere nel mondo nella relazione con il nostro ambiente, le nostre attività, la nostra storia… E poi: da psichiatra e psicoterapeuta, dico che quando si sente una qualche forma di disagio, evitiamo di anestetizzarla subito con un farmaco. Il farmaco ovviamente è importante usarlo, ma insieme chiediamoci il senso di quella sofferenza, ascoltiamoci, cerchiamo di capire che cosa il nostro corpo ci sta dicendo.
Nel suo progetto, la musica è definita come un ‘linguaggio universale’ capace di toccare le profondità dell’animo umano. Quale ruolo attribuisce alla musica nel creare un dialogo inclusivo e empatico tra le persone, specialmente in contesti di sofferenza e vulnerabilità?
La musica ha ruolo fondamentale, è un linguaggio sottile e potente che parla a tutti, agisce sul nostro stato emotivo. Non a caso nella comunità che dirigo il laboratorio musicale è da sempre il più partecipato: ho visto pazienti con forme di sofferenza molto grandi aprirsi e interagire con gli altri grazie alla musica in un modo che mai avrei creduto possibile. La musica ha un’azione di cura per molti disturbi, neurologici e psicologici, ha molte applicazioni terapeutiche. Quest’anno nel festival si parlerà delle applicazioni terapeutiche nell’autismo. E poi, la musica è per eccellenza un esempio di cooperazione!
Mèlosmente si distingue per la sua esplorazione multidisciplinare della corporeità. Come riesce a integrare conoscenze scientifiche, psicologiche e artistiche in un’unica visione coesa, e quale valore aggiunto apporta questa sinergia al festival?
Il mio obiettivo è stato da subito quello di creare uno spazio d’incontro, riflessione e conoscenza su grandi temi esistenziali, affrontati da molteplici e differenti prospettive disciplinari ed esperienziali per parlare a tutti, non solo a un pubblico di addetti ai lavori, integrando mente e corpo, teoria ed esperienza, gioco, spettacolo e conferenze frontali, per avvicinare alla consapevolezza più persone possibile.
La giornata inaugurale dedicata agli studenti delle scuole superiori rappresenta un’iniziativa lodevole per coinvolgere le nuove generazioni. In che modo spera che queste esperienze formative influenzino il loro rapporto con il corpo e con la società, in un contesto in cui il rispetto e la solidarietà sono più che mai necessari?
I giovani sono il futuro, e il cambiamento necessario non può che venire da loro. E sono loro a pagare il prezzo più alto dei problemi della nostra società – la performance, il giudizio, le aspettative, e il conseguente senso di fallimento e di inadeguatezza – in termini di disagio psicologico che si scrive anche sul loro corpo. Pensiamo all’anoressia, con un corpo magro e impossibile che si sottrae al desiderio, o al ritiro sociale, col corpo che si sottrae allo sguardo e al giudizio: il loro corpo urla “io no ci sto”. E pensiamo al senso di solitudine che si esprime nel panico o nella depressione: il loro corpo urla “mi sento solo”, o “non mi sento capito”… E’ necessario mettere a tema la liberazione dalle ingiunzioni della società della performance, che schiacciano chiunque, e che agitano individui i quali, nel loro isolamento reciproco, si sentono comunque privi di futuro.