MYLE, il nuovo album “IS NOT HERE”, intervista: “compongo partendo da brevi appunti”

MYLE

MYLE, il suo vero nome all’anagrafe è Emiliano, cantautore e musicista, nato a Parma, classe 1984.

Attualmente vive in Costa Azzurra, dopo anni di trasferimenti tra Parma, Berlino, New York, Sardegna, Friuli, Lago di Como. Artista dotato di uno straordinario talento innato, ha lavorato in Europa e in America come musicista.

La sua voce particolare e intensa emoziona fortemente, poetiche e introspettive arrivano al cuore le tracce che compongono il disco IS NOT HERE, un album originale e ricco di sfaccettature.

Abbiamo raggiunto Myle per un’esclusiva intervista, ci ha rivelato il suo inedito processo creativo e tante curiosità vertenti il suo nuovo album IS NOT HERE.

In quale emozione ti rispecchi quando canti?

Nella storia, nella rabbia, nella disillusione, nella vitalità, nell’indifferenza o nell’amore che voglio raccontare in quella canzone.

Quale importanza hanno i sogni nella tua vita?

Parliamo di sogni “tecnici”, onirici in senso stretto, ovvero della fase REM, o di sogni metaforici di vita? Se dei primi, vorrei che avessero più importanza consapevole. Soffro di una totale incapacità di ricordare i sogni che faccio, se non in rarissime occasioni. Un mio grande amico, artista scomparso circa un anno fa, invece coi sogni quasi ci giocava, me li raccontava in lunghissimi messaggi con dettagli precisissimi, e dai sogni spesso pescava per la propria arte. Io forse lo faccio ma inconsapevolmente, quindi è come se non lo facessi. Se invece parliamo dei sogni-desideri beh, tantissimo. Ci ho costruito tutto ciò che ho fatto, nel bene e nel male. Sui sogni e sulla volontà di realizzarli.

Qual è la genesi del tuo nome d’arte?

Estremamente banale. Mi chiamo Emiliano, diciamo che volevo cercare un soprannome che non fosse “Emi”. Myle rimanda un po’ il mio nome, un po’ al concetto di distanza e di strada, poi quella Y fa molto Byrds, no?

In quanto tempo è nato Is Not Here?

Troppo. La genesi delle canzoni forse sette-otto anni. Magari anche dieci o dodici se vado a cercare gli appunti. Sì, perché compongo partendo da brevi appunti, tipo dei “la la la la” cantati male nel telefono mentre cammino, con macchine che passano e cani che abbaiano, o da piccole fransi incomprensibili. Che poi diventano una canzone nel tempo, ricercandosi tra di loro e in qualche modo incastrandosi come pezzi di un puzzle ritrovati in giro per la stanza. Uno nuovo e pulito, uno invece impolverato sotto una credenza, uno rotto in due e rimesso insieme con lo scotch, però va a finire che insieme compongono la figura. Diciamo che l’embrione di Is Not Here risale al 2010-2012, poi ho smesso con la musica, un po’ per scelta un po’ per necessità, ma in tutti questi anni ho ascoltato, pensato, scritto. Riascoltato, ripensato, riscritto. Fino ad arrivare più o meno alla fine del 2018 con uno schema in testa. Sei anni in cui mi sono trasferito credo dodici volte in cinque o sei città e tre nazioni diverse. Sempre con l’obiettivo di ricominciare a fare musica. Prima a Berlino, poi in Sardegna, poi in diverse città in Italia, avevo sempre iniziato a prendere contatti, a conoscere musicisti… e poi via, fine, cambio. Col ritorno a Parma sono riuscito a trovare lo spunto per iniziare, chiamare lo studio, prenotare giornate, anche se si trattava solo di uno schema, di appunti messi in ordine. Se non avessi iniziato, sarei ancora qui a scribacchiare e a pensare che è ora di farlo. Poi due anni circa di lavoro, non troppo intenso, insieme a Domenico Vigliotti al Sonic Temple Studio e a tutti i musicisti, hanno creato Is Not Here. E pure qui mi sono fatto maledire dai musicisti, perché le idee erano allo stesso tempo chiare e abbozzate, tante cose sono state incise e ripensate e reincise mentre le canzoni una alla volta prendevano corpo.

Hanno un filo conduttore le tracce che compongono Is Not Here?

Sì, certamente. Più che in una singola storia, nel modo di vedere il mondo, nella volontà di raccontare drammi personali e sociali del nostro tempo e un po’ della mia generazione. Is Not Here è un album che non può prescindere dai temi che racconta e che affronta. La ricerca dell’identità declinata in varie forme ed esperienze, della propria “collocazione” in un mondo e in una società che vogliono a tutti i costi apparire esigenti e perfetti, quando in realtà fanno vomitare. Cerco di raccontare l’alienazione e l’emarginazione (sì, grazie al cazzo, bravo, come fanno tutti i cantautori da ormai 60 anni) ma da ogni punto di vista, perché spesso la solitudine e l’indifferenza nelle loro forme più fini creano emarginazione, cerco di raccontare il fastidio che provo nei confronti del frastuono “sociale” assordante che ci impone il tempo in cui viviamo, cerco di raccontare il valore del tempo, delle persone, delle idee, della forza vitale. Tanti testi sono ispirati anche a versi di poeti contemporanei (viventi e non), perché credo che le arti “dialogando” possano comunicare ancora meglio il proprio messaggio. A livello di suono credo anche che ci sia un filo conduttore forse più difficile da percepire, perché effettivamente ci sono tantissime ispirazioni e tantissime variazioni stilistiche. Ma io il suono dell’album lo sento.

Qual è il motto che sposi maggiormente?

Non ho alcun motto, se non forse una frase tratta da “The Quiet American”, splendido romanzo di Graham Greene: “Prima o poi bisogna scegliere da che parte stare, se si vuole restare esseri umani.”

Progetti futuri?

Continuare senza sosta a fare ciò che posso per portare avanti le mie idee e ciò che voglio comunicare. Se con la musica, tanto meglio. Ci sarà un tour? Forse, anzi spero di sì, ma ancora non c’è nulla di organizzato. Ci sarà un altro disco? Stessa risposta. Per ora la speranza è che quante più persone possibili possano ascoltare Is Not Here. Saranno loro a farmi capire cosa potrò fare. La volontà di raccontare, scrivere e cantare c’è, se è questa la domanda.

MYLE su Instagram

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