
Abbiamo raggiunto gli ADA per un’intervista esclusiva. Ci sono brani che non chiedono il permesso per entrare, ma spalancano le porte dell’anima con una corsa cieca e una voce spezzata dal vento. “Sfortuna”, il nuovo singolo degli ADA, è uno di questi. Una scarica elettrica travestita da canzone, un urlo collettivo che si nutre di fragilità e si trasforma in potenza emotiva. Prodotto da Sollo dei Gazebo Penguins, questo brano è il primo squarcio su un futuro prossimo che promette di non lasciare superstiti tra le convinzioni. Perché “Sfortuna” non consola, non indulge: è un esorcismo sonoro che celebra il caos come unica verità tangibile, un inno all’imperfezione che vibra di carne e d’istinto.
Nati tra le pieghe più sensibili della scena indipendente, gli ADA tornano dopo una pausa con una forza nuova, crudele e liberatoria. Laddove la sfiga diventa musa e il disincanto si fa danza tribale, loro compongono il proprio manifesto con sudore, sarcasmo e speranza. Perché — che lo si ammetta o meno — in fondo siamo tutti figli della sfortuna, eppure capaci di cantare anche quando il mondo ci fa eco col silenzio.
“Sfortuna” è un brano che esplora la frustrazione e la ricerca di libertà attraverso l’urlo e la corsa. In che modo questo pezzo rappresenta la vostra evoluzione artistica, rispetto ai lavori precedenti, e come si inserisce nel percorso di crescita personale e musicale della band?
<<Con Sfortuna abbiamo voluto esprimere un lato più irriverente del nostro modo di vedere il quotidiano. Ogni brano che scriviamo nasce da un’urgenza diversa, e questa volta avevamo bisogno di qualcosa di immediato, di liberatorio, che non si prendesse troppo sul serio. È un pezzo che racconta il caos con leggerezza, che trasforma la frustrazione in un grido di sfida e in una corsa senza meta. Fa parte della nostra evoluzione perché ci permette di esplorare un altro modo di vivere la nostra musica: più istintivo, più sfacciato, più diretto>>.
Il ritmo travolgente e l’energia feroce di “Sfortuna” catturano l’ascoltatore in un’atmosfera intensa. Quanto è stato importante per voi mantenere quella potenza emotiva nella composizione e produzione del brano, e come avete collaborato con il Sollo dei Gazebo Penguins per arrivare a questo risultato?
<<A dire il vero, non cerchiamo la potenza emotiva in modo calcolato. Viene da sé, perché è il nostro modo di esprimerci. Il sound aggressivo non è solo una scelta stilistica, è la nostra valvola di sfogo. Se non ci lasciamo travolgere da quello che suoniamo, come possiamo aspettarci che lo faccia chi ci ascolta? Sollo per noi è stato una sorta di catalizzatore: ha capito subito dove volevamo andare a parare e ci ha dato la spinta per spingerci ancora oltre. Ha preso il nostro caos e lo ha amplificato, portandolo a un altro livello senza snaturarlo. Un po’ come se avesse acceso la miccia e ci avesse detto: “Ora esplodete”>>.
Il tema della sfortuna, trattato in modo liberatorio, sembra essere un riflesso di una condizione universale. Come pensate che l’ascoltatore possa identificarsi con questo brano, e in che modo il vostro messaggio invita alla speranza, nonostante il vuoto che sembra lasciarci la vita?
<<La sfortuna è la compagna di viaggio di tutti. C’è chi fa finta di niente, chi ci combatte, chi la usa come scusa. Noi diciamo: tanto vale prenderla di petto. Prevederla, riderci sopra, urlarle in faccia prima che lei lo faccia con noi. Sfortuna non è un lamento, è una risata isterica davanti all’imprevedibilità della vita. Non ha una morale, non dice che tutto andrà bene. Ma se anche nella sfiga riesci a trovarti un po’ di libertà, allora hai già vinto>>.
Con “Sfortuna”, date voce alla dualità della forza e della fragilità umana, elementi che accomunano tutti. Quanto questa connessione tra debolezza e resilienza è parte integrante del vostro messaggio musicale, e come cercate di tradurla nelle performance live?
<<Non siamo qui a dire che va tutto bene. Ma non siamo neanche qui a piangerci addosso. Non ci piace essere troppo coerenti, sarebbe una noia altrimenti. La nostra musica nasce dal contrasto, dall’istinto, dall’alternanza tra il lasciarsi andare e il riprendere il controllo. E dal vivo tutto questo diventa ancora più viscerale. Sul palco siamo lì per sentirci vivi, per buttare fuori quello che abbiamo dentro e lasciare che la musica parli al posto nostro. Chi sta sotto il palco può prenderlo come vuole: può urlare con noi o farsi travolgere, tanto alla fine ci si ritrova sempre tutti lì, nello stesso vortice>>.
Progetti futuri?
<<Suonare dal vivo, tanto e ovunque. Più rumore, più casino, più sudore. Vogliamo portare la nostra musica nei posti giusti, davanti alle persone giuste, e vedere che succede>>.
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