Siamo entusiasti di presentare l’intervista a Gaetano Nicosia, un artista di straordinaria versatilità e profonda sensibilità. Il suo recente EP, “Carezze Atomiche“, rappresenta non solo un’evoluzione musicale, ma anche un’intensa riflessione sulle complessità della condizione umana. Gaetano Nicosia, con la sua abilità di fondere il punk rock con temi di grande attualità, come il conflitto e la ricerca di identità, ci invita a esplorare le emozioni più recondite attraverso una narrazione musicale incisiva.
Con ‘Carezze Atomiche’, avete saputo intrecciare il linguaggio del punk rock con temi così profondi e universali come la guerra e la sopravvivenza. Qual è stata la fonte di ispirazione per l’uso delle metafore legate ai giochi da tavolo e come pensate che queste arricchiscano la narrazione dei conflitti personali e collettivi nel vostro EP?
Se davvero sono riuscito a intrecciare il mio linguaggio musicale a temi così drammatici per me è un grandissimo risultato. È difficile dire quale sia la fonte di ispirazione di una canzone. Per me si tratta di una sorta di un pensiero, un’immagine che costantemente mi porto dentro: l’angoscia di questi ultimi anni con la guerra sempre più vicina, i ricordi, le sensazioni che fluiscono. Poi accade qualcosa – un fatto, un pensiero – che cristallizza e improvvisamente riesci a dare forma a tutta questa immensa nebulosa, quella forma che ti consente di guardarla, di lavorarla, prenderne definitivamente coscienza. È in quel momento che inizio a sentire il suono che tutto questo sta producendo dentro di me. Lo stesso succede con le parole, che improvvisamente appaiono, spinte dalle note, spinte a loro volta dall’assurdo di quello che ci gira intorno. Quando vedi dibattiti in cui l’unico oggetto della discussione è “guerra sì o guerra no”, come se fosse un tema discutibile, e diventiamo tifosi di una fazione piuttosto che dell’altra, sempre seduti sul salotto di casa nostra, e realizzi che l’unica competenza che abbiamo sul tema è limitata a quel gioco da tavolo, il surreale prende il sopravvento. Così è stato per Carezze atomiche.
Le vostre composizioni, come dimostrano le tracce dell’EP, abbracciano una vasta gamma di immagini e stati emotivi, dall’apatia alla rabbia. Come siete riusciti a mantenere una coerenza tematica e stilistica attraverso questo viaggio emotivo, e quale ruolo gioca la vostra esperienza personale nella creazione di un’opera così articolata?
Penso che molto sia legato al processo compositivo di cui ho parlato prima: la musica mi permette di mantenere una posizione in un contesto dove di posizioni sembrano essercene sempre meno. È davvero difficile essere coerenti in una cornice così mobile, così schizofrenica. La musica, ma in generale penso tutte le arti, te lo consentono perché ti danno la possibilità di trascendere, di sederti in cima e osservare l’orizzonte. E da lì appare tutto più chiaro. L’esperienza personale è tutto, non solo, ma conta anche l’occhio con cui guardi le cose. Le cose sono davanti a tutti noi: sta a noi scegliere come guardarle e che forma dare loro. Forse il vero tema, quando osservi è decidere se essere oggetto o soggetto. Solo in questo caso diventi colui che fa, diversamente subisci gli eventi, ne sei sopraffatto. Ovviamente si tratta solo di una questione mentale, perché poi la realtà è quasi sempre più forte ma è l’attitudine continua a volerla lavorare che ci consente di fare dei passi avanti, altrimenti non c’è speranza.
La scelta del titolare dell’EP ‘Carezze Atomiche’ suggerisce una riflessione critica e forse sarcastica sul nostro tempo. Come vedete il ruolo dell’arte nel riflettere e influenzare le dinamiche sociali e politiche contemporanee, e come questo concetto si traduce nella vostra musica?
Oggi è tutto molto difficile, chi sceglie di lavorare con la realtà, parlo a livello musicale, non ha spazi o ne ha sempre meno. Spesso siamo solo dei trasformatori, dei medium delle nefandezze che vediamo intorno a noi. Ma sempre di più il prodotto di questo “mediare” resta poi senza sbocco, sopravvive in ambiti ristretti, autoreferenziali e rischia di perdere tutta la sua forza, di diventare sterile. E poi invece c’è intorno un grande bisogno di ascoltare musica, storie, messaggi, ma anche questo bisogno non trova sbocchi. Sono due mondi che hanno bisogno uno dell’altro ma che in questo momento non si stanno trovando. Ciascuno deve fare un pezzettino di strada verso l’altro. Da una parte trovare modalità espressive che possano in qualche modo spezzare questa coltre, dall’altra una testarda volontà di andare a cercare dell’altro, di non fermarsi alle cose che ci vengono offerte. È pieno di musicisti che fanno cose bellissime che nessuno sa che esistono. Se riuscissimo a riaprire questo canale forse avremmo più opportunità di influenzare le strane dinamiche, sociali e politiche, che ci sovrastano. Il concetto della ricerca secondo me è fondamentale, questo cerco di fare nella mia musica: note inusitate e storie sconosciute.
Il remix di ‘Cuore Morto’ e ‘Molto Semplice’ dimostra una reinterpretazione profonda e articolata dei vostri brani. Come avete collaborato con Flavio Ferri e Arlo Bigazzi per garantire che i remix rispecchiassero la vostra visione artistica originale, mentre allo stesso tempo aggiungevano nuove dimensioni delle canzoni?
Quando hai la fortuna di avere a che fare con artisti e persone di questo livello l’unica cosa che puoi fare è affidarti a loro. D’altronde a Flavio ho affidato da due dischi la mia produzione, il suo mantra è proprio il rispetto dell’artista anzi l’esaltazione all’ennesima potenza del messaggio dell’artista, unita alla capacità, quasi unica, di riuscire a dare la forma migliore tra quelle possibili. È come se ti entrasse dentro e riuscisse a dire le cose che vuoi dire tu. Sai quando dici “mi hai tolto le parole di bocca”? Ecco Flavio fa lo stesso con la musica. E in Arlo ho trovato lo stesso sacrale rispetto per la forma che l’artista porta e al contempo la capacità di integrare con quello che il suo occhio ha visto dentro il tuo messaggio. Il pow wow che ha messo in Cuore morto è il battito cardiaco che mancava. E poi non dimentichiamoci il remix di “Molto semplice” è cantata dall’amico e musicista BRAT che, con la sua interpretazione, ha permesso a Flavio un nuovo punto di osservazione. Sono le magie portate dalle sensibilità di chi osserva per interagire. Solo così si cambia davvero cambiando tutto, per citare alla rovescia il Gattopardo, perché rispettando quello che c’è prendi per mano l’altro e gli fai vedere che c’è anche dell’altro e gli permetti così di vederlo.
La vostra carriera musicale, iniziata in modo insolito piuttosto e maturata attraverso esperienze diversificate, culmina ora con ‘Carezze Atomiche’ e il prossimo album ‘Io Sono Chiunque’. Come riflettete sul vostro percorso artistico fino ad oggi e quale significato attribuite a questi lavori come sintesi della vostra evoluzione musicale e personale?
Quando è uscito “Senza Storia” nel 2020 non avrei mai immaginato che avrei fatto altri due dischi, pensavo che quello fosse il sunto di anni di sale prova e potevo ritenermi soddisfatto. Poi invece non è andata così, Senza Storia è stato il punto di partenza che mi ha spinto a evolvere, a cercare cose nuove. Lavorare con Flavio Ferri poi ti aiuta a crescere davvero. Finita la registrazione di “Sparare a vista” avevo già mille idee diverse sulla modalità di composizione e ho cercato di portarle nella stesura di “Io sono chiunque” e “Carezze atomiche”. Se guardo indietro la strada percorsa è lunga. Con l’uscita di ogni disco metto nel cassetto qualche cosa di più che so che utilizzerò nel prossimo disco. Un passo per volta… sento che la mia musica cresce.