Abbiamo avuto l’onore di intervistare Cheez, un giovane talento che, con il suo ultimo lavoro, Feeling Blue, ci regala un’opera dal respiro profondo e autentico. Questo concept album è una straordinaria narrazione in sette atti che intreccia le fasi della depressione e dell’amore, creando un percorso musicale e personale che tocca con sensibilità le corde più intime dell’anima. Cheez ci conduce attraverso un viaggio fatto di trap-soul, rap e suggestioni contemporanee, dove ogni traccia è un tassello di un racconto interiore potente e universale. Dai toni più crudi e oscuri ai momenti di delicata speranza, Feeling Blue rappresenta la sua capacità di fondere con maestria suoni e tematiche complesse, offrendo al pubblico un’esperienza sonora che travalica i generi e si radica nelle emozioni più profonde.
“Feeling Blue” è un’opera che scava a fondo nell’intimità emotiva, trasformando l’amore e la depressione in un racconto di sete tappe intensamente vissute. Come è nato questo concept e quanto è stato impegnativo trasporre un viaggio così personale in un linguaggio musicale?
Non è stato semplice, ma sono contento del risultato. All’inizio non avevo un concept preciso, ma tutto è cambiato dopo aver scritto “Tenero”, che è stata la prima traccia registrata del disco. Lavorando su quella canzone, ho capito che ogni brano successivo doveva essere in qualche modo collegato. Da lì è nata l’idea di intrecciare una storia d’amore con le diverse fasi della depressione, creando una narrazione coerente attraverso tutto il disco.
La tua capacità di fondere trap-soul, rap e influenze contemporanee si rivela estremamente efficace nel creare un’atmosfera sonora unica e suggestiva. In che modo hai scelto le sonorità per ciascuna fase e come queste ti hanno aiutato a rappresentare il tuo percorso interiore?
Ti ringrazio per il complimento. Per quanto riguarda le sonorità del disco, ho scelto di lavorare con i beatmaker con cui collaboro abitualmente, T-Melo e Wasab. Curiosamente, non avevano mai partecipato insieme a un progetto, ma visto il risultato, sono certo che non sarà l’ultima volta. Fin dall’inizio, ho chiarito a me stesso che, se avessi fatto un disco, non sarebbe stato solo hip hop. O meglio, avrei voluto fare quello che mi soddisfava di più, senza limitarmi a un genere specifico. Faccio musica da un po’ ormai, e questa volta ho sentito l’esigenza di sperimentare davvero.
Brani come “Virus – Shock” e “Caldo – Rabbia” lasciano intravedere l’intensità dei contrasti che hai voluto esplorare. Come hai affrontato il passaggio da momenti di profonda vulnerabilità a quelli di pura intensità emotiva, bilanciando questi estremi nella composizione?
Per rendere al meglio ciò che ho provato, ho scritto ogni canzone solo quando stavo effettivamente vivendo quello stato emotivo, per rendere il sentimento più autentico. Ad esempio, “Sorry” l’ho scritta in un momento di estrema tristezza, proprio per far arrivare a chi ascolta quel tipo di emozione in modo diretto. Ovviamente non è stato facile, perché scrivere in questo modo può rallentarti: devi aspettare di trovarti davvero in quella condizione emotiva. Però credo che ne sia valsa la pena, perché il risultato è più vero.
Nelle tue liriche emerge una raffinata introspezione, che unisce elementi universali dell’esperienza umana con la tua storia personale. Quale messaggio speri che gli ascoltatori possano portare con sé dall’esperienza di “Feeling Blue”?
Non mi piace l’idea di dare un messaggio preciso a chi mi ascolta. Lynch diceva che i suoi film sono come dipinti, non si possono spiegare perché il significato arriva da chi li guarda, ed è esattamente così che vivo la mia musica. Dai titoli e dai testi delle canzoni si può intuire quello che ho attraversato e come ho vissuto questa esperienza, ma non voglio imporre un’interpretazione. Spero solo che possa essere un aiuto per chi, come me, soffre tanto a livello emotivo.
Il pezzo conclusivo “Light Blue – Speranza” sembra offrire uno spiraglio di luce dopo un viaggio oscuro e complesso. Come descriveresti il ruolo della speranza nel tuo lavoro e nella tua visione artistica? Trovi che la musica sia stata una forma di guarigione per te?
Assolutamente sì, la musica è l’unica forma di guarigione che conosco. La speranza ha avuto un ruolo fondamentale, sia nella costruzione del disco che nella mia vita. Non sono una persona ottimista, o meglio, non lo sono più. Mi aspetto sempre che vada tutto male, ma allo stesso tempo, dentro di me, c’è sempre questa speranza che le cose possano andare per il verso giusto. Poi arriva un momento in cui ti rendi conto che puoi stare meglio di così, e capisci che l’unica persona che può aiutarti davvero sei tu. Da lì inizi a lavorare su te stesso e a capire cosa fare per migliorarti come persona.
Progetti futuri?
Sto lavorando a più cose, sia come solista che in collaborazione con altri. Non mi fermo mai, perché come dicevo prima, la musica è la mia valvola di sfogo principale, il modo in cui riesco davvero a esprimermi e a stare bene. Questo disco è solo l’inizio, ho tante idee e tanta voglia di sperimentare, quindi ci sarà sicuramente molto altro da ascoltare prossimamente.